Viaggio

E finalmente la traversata

A pensarci oggi sembra quasi buffo. Oggi, che siamo fermi da due mesi nella stessa baia. Oggi, che ci sono cresciute le alghe sotto la chiglia e l’altro giorno mi è sembrato addirittura di scorgere un granchietto sul piede del timone.

Ma c’è stato un tempo in cui prendevamo la decisione folle e saggia di armare una barca a vela di dieci metri e attraversare l’Oceano Atlantico. 3000 miglia in 24 giorni.  

La rotta con i waypoint ogni tre ore sul nostro OpenCPN
La rotta con i waypoint ogni tre ore sul nostro OpenCPN

C’è stato un tempo in cui ai timori degli altri rispondevamo con liste precise, piani inattaccabili e organizzazione minuziosa.

Quel tempo per noi si è cristallizzato in una tarda mattinata di novembre, quando increduli, agitati e sollevati chiedevamo a Marianne di prendere il largo, costeggiare Fuerteventura e portarci lì dove gli alisei avrebbero iniziato a soffiare per condurci al di là dell’Oceano.

Ho imparato in questi mesi di lezione accelerata di vela in viaggio for dummies che se le storie di barca in fondo si assomigliano tutte, le storie delle traversate sono tutte diverse (un po’ insomma come le famiglie felici e infelici di Tolstoj).

Ci sono molti aspetti che concorrono nel rendere unica l’esperienza, io ne ho individuati alcuni: l’equipaggio, le motivazioni, la barca e i suoi lussi, le condizioni climatiche.

Ad esempio solo una volta arrivata ho scoperto che ci sono barche in cui durante la traversata si gioca a Risiko (ciao Tangos), che ci sono equipaggi che durante il turno sonnecchiano che tanto ci pensa l’autopilota, c’è chi si fa la doccia ogni due giorni e chi addirittura la lavanderia. Non voglio dire che siamo stati degli eroi, però su Marianne è stata sicuramente una traversata più spartana. E comunque mento, io mi sento un eroe (senza dissalatore, senza autopilota e su un dieci metri).

Noi siamo partiti in tre. Sebbene la traversata da Gibilterra alle Canarie ci avesse galvanizzati (“Siamo fighissimi! Ce l’abbiamo fatta senza problemi! Nessuno si è buttato disperato giù dal pulpito di poppa!”) eravamo consapevoli che l’aiuto di una terza persona ci sarebbe stato utile. Un po’ a malincuore, lo ammetto, perché la tentazione di farlo noi, da soli, è stata forte (ma meno male che non l’abbiamo ascoltata…). Gianluca ha quindi chiesto a Pier, armatore di tante regate e amico, di accompagnarci.

Il capitano e l'equipaggio al tramonto
Il capitano e l’equipaggio al tramonto

Pier ha già una traversata all’attivo sebbene in condizioni molto differenti (barca di 60 piedi, equipaggio numerosissimo, capitano Vittorio Malingri) quindi anche per lui sarà una sorta di prima volta.

Al netto di qualche piccolo problema fisico che si è fatto sentire più durante i primi giorni che sulla lunga distanza, Pier si carica sempre più, giorno dopo giorno. È una roccia, non ha cedimenti né malumori. Si adatta sorridendo a turni, pasti un po’ troppo esotici per i suoi gusti e ad una penuria non prevista di birra. Sereno e pacifico legge il suo kindle, trova addirittura voglia e forza per lavorare e fa da critico contraltare alle elucubrazioni di Gianluca su rotta e tattica.  L’ultima notte arriva a suggerire di continuare ancora un po’. Io annuisco comprensiva e con la mano dietro la schiena digito il numero della neuro.

Wild Pier al lavoro
Wild Pier al lavoro

Gianluca è emozionato come mai l’ho visto. Preparatissimo a livello teorico, ha previsto tutto a livello tecnico. La sua tenuta mentale e fisica non conosce limiti né scalfitture.

Abituato da sempre a lunghi turni, altrettanto lunghi silenzi, a concentrarsi per ore sulle reazioni delle vele al vento, attraversa i 24 giorni senza traumi o crolli, con qualche passeggera delusione e con molti entusiasmi. 

ecco cosa si intende per Piede Marino
ecco cosa si intende per Piede Marino

 L’unico aspetto della traversata che lo destabilizzerà sarà l’iniziale ma duratura mancanza di vento. Nonostante una partenza che fa ben sperare, per quattro giorni il vento si spegne, a seguire dieci giorni di vento leggero, mai sopra i dieci nodi . Decidiamo di non cedere subito al motore (anche perché non abbiamo molto carburante). Dobbiamo scendere fino a Capo Verde e superare l’arcipelago, arrivare al 16° di latitudine Nord per poter finalmente agganciare un aliseo costante, infrangere la barriera dei 15 nodi di vento e iniziare a divertirci un po’. 

Record!
Record!

Fiocco tangonato, spinnaker, qualche strambata. Gli ultimi dieci giorni il vento non scende mai sotto i venti nodi permettendoci di partecipare al campionato mondiale delle planate su onda  (del resto si sa, dai ad un velista una velocità record e lui cercherà immediatamente di registrare un nuovo numero). Il capitano porta a casa la medaglia d’oro con una planata che ci fa volare a 12.62kn. Su quelle onde che ogni tanto ti affacci dal tambuccio, le vedi in faccia e pensi “ma chi me l’ha fatto fare?” perché sembrano muri che si spostano e in realtà diventano le tue compagne di giochi, al pari dei delfini e delle stenelle che ogni tanto si affiancano alla barca. 

welcome onda oceanica
welcome onda oceanica

Dal diario di bordo del tre dicembre di Gianluca: “tra le onde finalmente davvero oceaniche ed un vento che continua a crescere di intensità ecco saltare, nella notte, i delfini. Giocano con la cresta delle onde, tuffandosi verso poppa quando son all’apice, facendo a gara con Marianne per chi tiene meglio e più a lungo l’abbrivio dell’onda. Anche nell’ora più buia (per me) i delfini giocano.”.

La solida struttura psicologica del capitano-poeta lo traghetta indenne da una costa all’altra.

E poi ci sono io, partita senza voler conoscere troppo, abbandonandomi forse per la prima volta. Dal lato velico ero più che preparata, avevo memorizzato ogni possibile sfiga e soluzione.

testa in su per controllare lo spi
testa in su per controllare lo spi
 

Decido invece di non volere anticipazioni su come si possano vivere quei giorni sull’acqua lontani da tutto. Del resto, ogni volta che avevo provato a chiedere a qualcuno, ricevevo sempre risposte poco soddisfacenti: troppo entusiaste (e io non sono un fan dell’entusiasmo), troppo sognanti (e dei sogni non parliamone neanche) o troppo tragiche (e queste non volevo neanche ascoltarle, ok tu sei stato male per venti giorni e non sei riuscito ad alzarti dal letto ma io non voglio saperlo).

Quindi mi ero ridotta a pensare: spero di non farmi male e spero di non farmi prendere dal panico.

Non sapevo invece che per me il nemico più subdolo si sarebbe rivelata la noia della routine, la mancanza di stimoli.

Abituata nella vita ad intrattenermi sempre con qualcosa (un libro, un film, un disegno, per capirci io sono di quelli che in bagno leggono le etichette dello shampoo), lì ad intrattenermi per giorni e giorni c’è stato unicamente il mio pensare costante (e conosco compagnie ben più piacevoli).

È molto complesso passare dal pensare al sentire, dal circolo vizioso di criceti che si rincorrono al silenzio e contemplazione. Non ci sono, ahimè, sempre riuscita, ma ci sono stati degli squarci che anche oggi, a distanza di mesi, rivivo come quadri nitidissimi.

Ci sono state le notti, con una luna enorme che sembrava essere lì solo per me, le stelle a indicare il percorso, le onde con il loro rumore costante, il vento a spingere come un abbraccio, e io che mi sentivo esattamente dove dovevo essere, in una sintonia mai sperimentata prima con quell’immenso altrove. Tenere il timone e veleggiare, nella notte, quando ci si scalda al tepore dell’alba, col tramonto del tardo pomeriggio, si entra in relazione con la barca. E’ come se la mente le fosse collegata e tu neanche te ne accorgessi. Come quel momento che precede di pochissimo la chiusura degli occhi, la sera, con la testa sul cuscino. Tu sei lì ma sei anche connesso con quello che ti circonda, senza però dominarlo, ne rappresenti semplicemente una parte. Assecondi la barca, precedi di qualche istante l’onda e sposti leggermente il timone.

Gianluca sostiene che quello che ci fa sentire sicuri, l’aspetto che chi rimane a terra non capisce fino in fondo, è proprio la barca, con la sua anima e con la sua tendenza costante a tutelarsi. La barca sceglie sempre la soluzione meno violenta, l’equilibrio più bilanciato. Quando da terra guardiamo il mare aperto sentiamo sempre lo stomaco che si stringe, il cuore che inizia a battere un po’ più velocemente. Sappiamo che in quell’ambiente non siamo i padroni, dobbiamo confrontarci con le sue regole, le violenze, la forza. Lo rispettiamo e temiamo. Ma noi nel mare aperto ci siamo arrivati con la nostra barca, abbiamo imparato a fidarci di lei, ad ascoltarla e sappiamo che non è solo una superficie che ci divide dall’acqua ma è un’imbarcazione creata proprio per condurci in salvo.

doppio uso per il tangone-stendino
doppio uso per il tangone-stendino

 

Abbandonata dall’intrattenimento sonoro (dopo due giorni chissà perché tutti i miei podcast e audiolibri sono scomparsi nel nulla), da sola per quei tre turni giornalieri mi sono ritrovata a percorrere stanze della mia testa che non avevo mai spolverato, in qualche magico momento di lucidità ho pensato: “Ecco sì! Una volta tornata vorrò fare così, andare lì, dire esattamente queste parole”.

In una condizione anormale di deprivazione sensoriale il mio cervello ha accelerato in qualche momento, in altri si è pesantemente incastrato. So di non essere stata una buona compagnia quando il quindicesimo giorno piagnucolavo “Non arriveremo maiiiii”.

In quei momenti nessun balsamo poteva lenire il mio spirito abbacchiato, la mia voglia di chiacchierare con qualcuno che mi capisse (eh sì, mi sentivo molto incompresa…), il mio bisogno di rumori, libri, film, stabilità sotto coperta, acqua corrente… anche vedere il countdown di miglia perennemente a schermo non mi aiutava per niente. Vedevo il nostro puntino in mezzo al mare e mi sembrava che la Martinica si allontanasse invece che avvicinarsi. Quando a fine giornata si contavano le miglia percorse mi sembrava una presa in giro: cento miglia? Centocinquanta e siete felici? Ne mancano un milione, non lo sapete??!! Mi sembrava di svuotare l’oceano con un cucchiaino insomma.

In quei giorni, quando il pensiero si fa circolare, la mia mente mette in azione mille trucchetti coltivati negli anni per non trovare pace. L’unica cosa da fare è aspettare, un giorno ti svegli, è il tuo turno. Vai fuori e il cielo ha dei colori che non vedrai più, ti senti sicura e ti senti un’eroina perché lo stai facendo da sola. Sono passate due ore e non te ne sei accorta. E la terza vola via.

Di notte il turno più infame è quello senza luce, prima che il sole sorga e dopo che la luna si è tuffata in acqua. Quelle tre ore di buio (che poi buio non è perché anche in una notte senza stelle l’occhio dopo qualche minuto si abitua e percepisce le forme) sono distanti da ogni conforto, è troppo tardi o troppo presto per mangiare, e attenzione a bere che meglio evitare di dover andare in bagno visto che l’autopilota si è rotto dopo cinque giorni. Per le prime due settimane di notte la temperatura è piuttosto bassa quindi si cerca di trattenere tutto il calore del letto dove si sognava fino a mezz’ora prima. Si cercano mille stratagemmi per stare svegli. Pier fuma cento sigarette e medita sornione, Gianluca sistema le vele e sogna le prossime traversate, io sono arrivata a fare mentalmente il percorso a piedi delle città dove ho abitato obbligandomi a fermarmi in ogni negozio bar e ristorante e scambiare due chiacchiere con il proprietario. Andavo a letto dopo quei turni con dei tremendi dubbi: com’è che si chiama il bar dove fanno quel cappuccino con la schiuma come piace a me? Ma dietro quella piazza c’è un vicoletto che porta dove esattamente?

E non smetterò mai di ringraziare le mie fantastiche amiche che mi hanno fatto il regalo più bello del mondo, un podcast di racconti recitati da loro. Ho centellinato ogni ascolto, cercando di prolungare la meraviglia il più a lungo possibile.

Tornando alla dura realtà, la routine del turno prevede un’organizzazione militare. Solitamente (soprattutto col buio) si arriva alla terza ora sognando di chiudere gli occhi. Di conseguenza non sono ammessi ritardi, sarebbe estremamente scorretto ed egoista far soffrire anche solo 5 minuti in più un commilitone. Ci si sveglia venti minuti prima, in bagno velocemente per lavaggio felino (ossia mani bagnate passate su viso addormentato), ci si veste in bilico in dinette, si mette su nel frattempo dell’acqua calda per un thermos di nescafé o té, si infilano in tasca un paio di biscotti, il telefono con le cuffiette per la musica e al polso si arrotola la torcia. Versione zombie si esce, si raggiunge il posto di comando in pozzetto, si prende al volo il timone dal sopravvissuto, ci si fa istruire sugli accadimenti passati (raffiche, eventuali groppi, l’angolo che si riesce a tenere al vento) e si inizia. La prima ora è abbastanza veloce, bisogna abituarsi, si sperimenta qualcosa con le vele. La seconda è un macigno sulle spalle. La terza vola, anche perché vedi la fine, senti il tuo compagno che si sta alzando dal letto, ci siamo.

Digestive salvavita
Digestive salvavita

Poi ci son le notti e i giorni in cui canto a squarciagola, improvviso dei concerti, ma che dico, dei musical. Con un solo braccio disponibile faccio coreografie che Tommassini scansate. Ogni tanto da sotto Gianluca mi implora di abbassare la voce che lui sta cercando di dormire. Scusami tanto, io sto cercando di rimanere VIVA!

Ulteriore routine, quella dei pasti. Siamo stati superbi, abbiamo cucinato a pranzo e cena e sempre piatti gustosi fantasiosi e saporiti. Abbiamo mangiato sempre assieme e ogni sera abbiamo aperto una finestrella del calendario dell’avvento che ci ha regalato Lavinia. Zuppe, pasta, purè, wurstel e patate (guilty pleasure, non mangiavo un wurstel da quando avevo 9 anni), insalate, macedonie, panini con tonno, risotti. La pentola a pressione vince il premio amica dell’anno. 

Abbiamo seppellito in qualche gavone prima di partire tazze, piatti e utensili vari. Viviamo con 3 ciotole, tre thermos e 3 forchette. Abbiamo 250 litri d’acqua nel serbatoio più altri 80 nelle taniche, abbiamo calcolato circa un mese di autonomia e stiamo attentissimi. Cuciniamo sporcando una pentola e sciacquiamo velocemente le stoviglie (laviamo con l’acqua salata ci limitiamo sostanzialmente a risciacquare con l’acqua dolce. Spoiler: tutte le posate oggi hanno una specie di ruggine). 

ciotola che ho bruciato appena arrivati
ciotola che ho bruciato appena arrivati

Cura della persona: ci limitiamo a lavarci i denti. Per il resto è il paradiso della salvietta umidificata. Una volta ci tiriamo addosso una secchiata d’acqua oceanica. Pier osa addirittura testare lo shampoo secco, ne è soddisfattissimo. Io mi limito a fare finta di essere calva. Non penso ai miei capelli sperando che loro non se ne abbiano troppo a male (spoiler 2: quando sono arrivata nel marina e mi sono fatta la doccia sono stata mezz’ora a sbrogliare nodi primitivi. Possedevo finalmente i dread tanto desiderati nei miei 13 anni).

prima della secchiata
prima della secchiata

Nelle pause dai turni leggo molto, finisco i libri che avevo scaricato sul kindle, li rileggo tutti una seconda volta e poi passo ai libri dell’hard disk. Leggo quasi per stordirmi. La vita sottocoperta non esiste se non in cabina (la dinette è quasi completamente occupata dai viveri e comunque si balla un po’ troppo per stare seduti serenamente). Si passa quindi dalla posizione sdraiata in cabina a quella rigida e vigile in pozzetto. Un paio di volte mi sono seduta in dinette a scrivere un diario. Me ne sono pentita quasi subito (e tra l’altro quel diario va dall’esaltazione alla depressione più nera, non fa fede!).

Sopracoperta invece scopro la vita dell’oceano.

Mi dicevano: non incontrerete nessuno, qualche cargo al massimo qua e là se siete fortunati (o sfortunati a seconda del livello di attenzione).

Ma nessuno mi aveva mai parlato dei pesci volanti.

Ragazzi, i pesci volanti.

Ce ne sono migliaia, saltano in continuazione e sono gli animali biologicamente più jellati del mondo.

Predati sia dai pesci più grandi che dagli uccelli, si dividono tra nuotate isteriche e frenetici salti. Guizzano fuori dall’acqua per scappare dai predatori marini e, colmo della sfiga, imboccano al volo gli uccelli o, ancora più improbabile ma incredibilmente realistico, atterrano su una piccolissima barca nel mezzo dell’oceano Atlantico. Per poi morire in due secondi. Infatti il pesce volante, nonostante passi metà della sua vita fuori dall’acqua, ha una resistenza all’ossigeno pari a zero. Il tempo di vederlo sbattacchiare sulla vetroresina, provare a prenderlo che è già morto. E morendo emana anche un fetore infernale. Se ti muore un pesce volante a bordo, anche minuscolo, lo capisci subito perché un odore di allevamento di cozze si spande immediatamente nell’aria.

Spesso la mattina al risveglio troviamo piccoli cadaverini avvizziti di pesci sulla tuga.

I pesci volanti non sono quindi né longevi né profumati ma oltre ad essere uno spettacolo (interi branchi che saltano baluginando argentati sul pelo dell’acqua) e a fare compagnia fungono perfettamente da allarme, da salvavita.

Di notte, nel bel mezzo del turno più letale, con la palpebra a mezz’asta mentre la mente vaga in spazi siderali… BUM! Qualcosa mi colpisce con violenza sulla schiena. Strillo terrorizzata (ma tenendo sempre saldamente il timone). Lo skipper esce trafelato mezzo nudo dalla cabina, sicuro che io sia andata addosso ad una balena come minimo. Armato di cellulare illumina il violento aggressore, un pesce volante che si dibatte nel pozzetto.

Anni di vita persi: 20 almeno.

Quasi come quando nel mezzo del Mediterraneo alle quattro di notte dal vhf uscì una voce “Mammmaaaa vuoi giocare con me??”. Maledetti pescatori che si annoiano e fanno le gag. Ho una ciocca bianca in più da quella notte.

Salvavita episodio due la vendetta: esterno notte, al timone il capitano. Sente un rumore, un uccello si è schiantato sulla randa! Prende il telefono, accende la torcia e… BUM! Un pesce volante gli atterra sul cellulare, giusto in tempo per essere divorato dall’uccello ripresosi in tempo record. Ah il magico ciclo della vita…

Quindi contiamo nel nostro oceano pesci volanti (a bizzeffe, vivi e morti), qualche uccello che si spinge a centinaia di miglia di distanza dalla costa (incredibile). Le lampughe (o Mahi-Mahi come le chiamano qui), pesci giallo-iridescenti dal muso schiacciato come carlini. Si immoleranno per andare ad integrare la nostra dieta vegetariana, Gianluca li sfiletta e li mettiamo sottovuoto a marinare (salsa di soia, lime, coriandolo, peperoncino, miele, senape…). Questi pesci atlantici sono grandi e carnosi ma in quanto a sapore lasciano un po’ a desiderare. 

lampuga che da morta diventa grigia
lampuga che da morta diventa grigia

Infine avvistiamo anche degli uomini. E non in lontananza. Con incontri ravvicinati, molto ravvicinati.

Così ravvicinati che dobbiamo fermarci, iniziare a lampeggiare con la torcia (si sono fulminate le luci di navigazione) e cercare di capire chi ha la precedenza. Di notte nell’oceano Atlantico come se fossimo alla rotonda davanti al Carrefour insomma. E l’emozione di quando, a qualche giorno dalla partenza, ci troviamo in contatto radio con una barca che vediamo in lontananza, è la Moby Sick, sono austriaci e puntano ad Antigua. Ci si scambia un paio di battute e rinfrancati si riprende la giornata più carichi. C’è vita là fuori!

Circa cinque giorni prima dell’arrivo incrociamo addirittura tre barche, siamo ad un passo dal dover urlare “Acquaaaa!” come nelle più violente regate.

La vista in oceano è appagata. Formazioni di nuvole sempre diverse che impari a decodificare, colori del tramonto con la loro delicatezza pastello. Nella routine anche uno scroscio d’acqua è vissuto come qualcosa di eccitante che ti aiuterà a stare sveglia 20 minuti in più! L’ultima settimana, quando ormai si sta al timone di giorno in costume e di notte con una maglietta, almeno una volta al dì arriva il groppo, nuvole che si addensano alle tue spalle, ti giri e vedi che in lontananza c’è qualche scroscio. La prima volta ti innervosisci: sta arrivando, no dai l’abbiamo scansato, se lui va a destra io vado a sinistra, Gianlucaaaaa…! la seconda lo studi. La terza lo aspetti che in fondo hai anche un po’ caldo.

testa in su per controllare lo spi

Il vento muore improvvisamente. Tutto si ferma. Ti giri. Il groppo è lì, sta avanzando verso di te. Arriva la raffica, il vento non solo si riaccende ma anche più violento, dai 18 nodi costanti si passa a 20, 25, a volte 29. Sempre di poppa quindi barca piatta. Oltre al vento arriva l’acqua, tanta, a secchiate, calda. Improvvisamente non si vede più niente, attorno solo il grigio delle nuvole, la pioggia battente e la nebbiolina. Welcome to Scozia. Il tempo di farsi passare da sottocoperta la cerata leggera che tutto finisce così come era iniziato.

Cerata e piedi nudi post-pioggia
Cerata e piedi nudi post-pioggia

I nostri groppi oceanici sono stati tutti molto pacati ed educati, l’unico vero groppo cattivo l’abbiamo incrociato proprio la notte in cui siamo arrivati in Martinica, a qualche miglio dalla costa. Il vento ha iniziato a soffiare a 40 nodi e oltre, ha cambiato completamente direzione, facendo quasi un 360. Le vele erano ingestibili come anche il timone. Per fortuna quello era il turno di Gianluca che ci ha svegliati entrambi, siamo saliti sopracoperta e con l’acqua battente, il vento che faceva un frastuono tale che era impossibile sentirsi da prua a poppa, la barca resa una lastra di ghiaccio scivolosa, abbiamo terzarolato il più possibile le vele (operazione non semplicissima considerando che abbiamo navigato per 24 giorni con fiocco tangonato).

A quel punto siamo rimasti svegli, ormai la costa era troppo vicina e quell’ultima botta di adrenalina aveva eliminato il sonno residuo. Ci avviciniamo alla Martinica di soppiatto, la costa è quasi completamente buia, vediamo in lontananza un faro e lo seguiamo. Puntiamo la grande baia di Le Marin, daremo ancora di fronte al paesino di Sainte Anne.

Sei arrivato davvero a terra ma gli indizi non sono né la luce del faro né il contorno della costa al buio della luna calante.

In Atlantico non c’è odore. Oltre a quello organico del tuo corpo (che comunque per fortuna non senti più dopo qualche giorno) e quello dei pesci, il nulla. E poi all’improvviso lo percepisci, ti colpisce le narici, alzi la testa quasi sorpreso.  

L’odore subito ti dice senza sbagli quel che ti serve di sapere; non ci sono parole, né notizie più precise di quelle che riceve il naso.” scriveva Italo Calvino.

Noi immediatamente sappiamo che siamo arrivati, dopo 24 giorni la terra è lì, con i suoi profumi tropicali, il suo sentore di verde, un lontano suggerimento di odori urbani, il villaggio che inspira ed espira. Ora non è più il vento di poppa che ci spinge ma è il profumo di terra, di casa che ci stringe e ci trascina a sé.

Gettiamo l’ancora, attorno tutto tace, siamo arrivati in un presepe notturno di barchette incastonate nel mare.

champagne sailing
champagne sailing

Prendiamo lo champagne tenuto in fresco dal primo giorno, molto più prosaicamente scartiamo anche l’ultimo salame spagnolo e brindiamo all’arrivo, all’aiuto di Pier che, sempre carico e ottimista, è stato un complice fondamentale in quest’avventura.

Sono le due di notte e alziamo i calici. 

Dentro di me rendo omaggio al coraggio di provare, a quella Giada ardita che ha pensato che poteva farcela, anche con la sua mente irrequieta e le emozioni fragili, a Gianluca che ha onorato il suo sogno e l’ha reso migliore di come lo immaginava, che ha avuto la tenacia di decidere e la caparbietà di studiare e osare, che è rimasto saldo al timone ed è stato capitano e compagno, sempre.

Brindo a chi ci ha permesso di partire affidandoci le sue raccomandazioni ma fidandosi di noi. E brindo a loro che, guardandoci da lassù, scuotono la testa con un sorriso sornione (“Son matti quei due là” si staranno dicendo) per scoppiare poi a ridere orgogliosi.

fatto
fatto

 

 

4 commenti

  • Diana Zanfrini

    Lettura emozionante. Ci hai fatto aspettare un po’ ma ne è valsa la pena. Avete affrontato E superato una grande prova. Non è da tutti.
    . Bravi!! Ora però ne avete un’altra forse più difficile perché incerta e meno avventurosa. Tenete duro! Un abbraccio miei capitani

    • SV Marianne

      Un abbraccio a lei, nostromo!
      Purtroppo non si può controllare la vena artistica, ma quando l’ispirazione arriva, si vola! Prometto articoli più frequenti, approfittando della quarantena 😉

  • Pierluigi Manente

    Siete veramanete i miei Eroi …..Mi chiamo Pierluigi ho 46 anni ho letto solo ora della vostra avventura! , vado per mare da tanto tempo ma con quello che i velisti chiamano ferro da stiro!!:) …….sono di quelli che non sanno niente della vela anche se hanno la patente . lnfatti me ne vergogno di avere mille elichette che spostano la barca e non ricordarmi da dove tira il vento !! Ma un venticello leggero ha spirato nel mio cuore leggendo la vostra avventura ,vi ringrazio di avermi portato un po’ in giro con voi nella vostra barca……allora, buon Vento……. impavidi Eroi . Vi seguo..

    • SV Marianne

      Grazie davvero! Ci fa piacere sapere che i nostri racconti servono almeno per evadere un po’ in questo periodo. E il capitano dice che c’è sempre tempo per salire a bordo e farsi guidare dal vento!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *