sesta tappa: la sardegna e i regali del maestrale
Dopo un luglio da maratona dei mari, affannati da traslochi e trasferimenti, Chioggia, Adriatico, le ioniche, Malta e Pantelleria, agosto ci porta, sebbene con moderazione, tranquille veleggiate e brevi spostamenti.
Letteralmente ubriacati dal sole di Pantelleria partiamo alla volta di Villasimius. Quando ci aspettano parecchie miglia l’organizzazione prevede una sveglia di buon’ora ed una partenza prima di pranzo. Invece, per andare incontro ad un vento capriccioso, da Pantelleria partiremo verso le cinque di pomeriggio.
Mai decisione fu più sbagliata: non solo il vento si prende gioco di noi e gira ancora una volta impedendoci di fare rotta verso la Sardegna ma la stanchezza dell’ultimo trekking pantesco sotto il solleone rende la notturna davvero complicata e per la prima volta cedo, condannando il capitano ad un turno abnorme da 7 ore.
Mi ritrovo a vagare da un lato all’altro del letto, rotolando causa bolina stretta, tra febbre e mal di testa da insolazione (una principiante…).
Graziata nelle ore notturne, con il levare del sole non posso fare altro che alzarmi e dare il cambio ad un (leggermente) nervoso ed irascibile skipper.
La bolina non ci da tregua e decidiamo di approdare a Marsala, estremità occidentale della Sicilia.
Mistero dell’approccio al porto: il molo si vede già chiaramente, per entrare dentro però ci vorranno altre quattro ore ed almeno dieci virate, un incubo.
Un breve stop over di un giorno che ci permette di dormire qualche ora, issarci in testa d’albero per fissare le volanti, scoprire il centro del paese con le sue pietre levigate color ocra, rifocillarci con zibibbo e caponatina e ripartire col pieno d’acqua.
Queste fermate (a volte obbligate) in porto dovrebbero avere il sapore del meritato riposo dopo 30 o più ore di navigazione ininterrotta. Invece seguono sempre un ritmo isterico: pulizie, lavori, spesa, e poi cosa fai? Non vai a dare un’occhiata a quello che hai attorno? Sarebbe un peccato.
Risultato, si riparte il giorno dopo e la sensazione è sempre quella: ma perché siamo andati a letto così tardi e svegliati così presto? Risposta scontata: per vivere!
Salutiamo alla nostra destra le sempre bellissime Egadi e dopo una traversata finalmente piacevole (con avvistamento della prima – ed unica finora – tartaruga e di un branco di delfini estremamente ginnici) arriviamo nel golfo del Poetto, subito fuori Cagliari, all’ora del tramonto. Il giorno dopo entreremo al Marina del Sole, uno dei porti più economici della zona.
Questa vita barcaiola priva di punti di riferimento e dove il contenimento delle spese ha una certa importanza, l’italica arte dell’arrangiarsi ci torna molto utile. Si chiede in giro, si esplora, si cercano soluzioni alternative.
Vorremmo prendere una macchina a noleggio ma, ahimè, il costo ci sembra troppo esoso e quindi con aria affranta mi affaccio alla reception del marina chiedendo consigli. Il marinaio di turno ci presta la sua twingo scassata e arrugginita. Ci sembra la carrozza di Cenerentola. Prima che torni zucca ci affrettiamo a sbrigare tutte le nostre solite, nevrotiche commissioni da città. Finalmente compriamo anche la batteria supplementare per i servizi, che cambierà la vita in barca: d’oggi in poi saremo autonomi, non più obbligati ad accendere il motore per alimentare i nostri consumi.
Anche l’acquisto più banale diventa occasione di scambio umano (sarà che quando si sta molto da soli si ha voglia di parlare anche con gli ignari passanti): vado in erboristeria e Gianluca dopo mezz’ora entra preoccupato. Mi trova quasi seduta al bancone che racconto alla gentilissima commessa della nostra vita. Lo skipper alza gli occhi al cielo e mi trascina via.
Dopo un paio di mesi di viaggio a due sta per salire a bordo di Marianne il primo ospite, Davide, amico di amici, con il desiderio di fare esperienza velica. Siamo curiosi e un po’ timorosi: come reagirà il nostro (fragile) intimo equilibrio alla presenza di un’altra persona? Come gestiremo gli spazi in barca? La quotidianità a bordo di Marianne, che quasi senza rendercene conto si è silenziosamente solidificata, sarà intaccata?
Tutti i nostri dubbi vengono spazzati via dopo le prime ore con Davide che si rivela il migliore ospite che si possa avere in barca. Alla mano, sorridente, aperto, curioso, attento e volenteroso. Si percepisce a pelle la sua forte volontà di apprendere quanto più possibile della gestione di una barca.
E se Gianluca torna per qualche giorno istruttore, per me la sua presenza a bordo vuol dire anche che posso prendermi una piccola vacanza dalle incombenze più veliche. La gestione dell’ancora, fissare il tendalino, piegare la randa, assecondare il capitano nelle sue imprese sportive e nell’issaggio dell’amato-odiato gennaker.
Davide è uno sportivo quindi trova ogni giorno modo di evadere dalla barca per nuotare (nonostante il maestrale abbia sensibilmente raffreddato l’acqua), esplorare le grotte col kayak, addirittura correre su una scogliera (strappandoci un applauso di ammirazione).
Averlo a bordo è un piacere. Quei dieci giorni ci hanno dato modo non solo di dare ossigeno a noi due ma anche di vederci da fuori, raccontandoci a qualcuno che di noi non conosceva nulla.
È incredibile quanta forza dia parlare ad alta voce delle tue scelte e di quello che ancora deve arrivare. Ed è quando riesci a spiegare a qualcuno come si fa qualcosa che capisci che quel gesto è ormai entrato dentro la tua testa e nelle tue mani (con grande sorpresa mi rendo conto che ho imparato a fare il nodo di bozza per la patta d’oca e non me n’ero ancora accorta!).
A Davide non interessa fare una vacanza in barca a vela intesa come chiringuito e cene piedi nella sabbia, ma vuole godere proprio di quello che per noi è diventata la normalità. È un piacere e motivo d’orgoglio condividere quello che abbiamo creato, la nostra idea di casa sull’acqua: le cene in pozzetto con le lucine sul tendalino, le furiose partite a briscola incendiate da un digestivo, la birra ghiacciata al tramonto con delle viziose patatine ed ovviamente le frequenti veleggiate alla scoperta di nuove rade.
Certo aiuta non poco essere in quel paradiso naturale che è la Sardegna. Nonostante sia ancora altissima stagione la costa sud-ovest dell’isola non è presa d’assalto al pari del nord. Nelle baie si riesce facilmente a trovare approdo sicuro e, anche se frastornati da un maestrale che per cinque giorni soffia ininterrottamente a venticinque nodi, i nostri ancoraggi ci fanno dormire sonni tranquilli.
Il primo giorno senza vento siamo così disabituati che ci guardiamo l’un l’altro chiedendoci: ma cosa è cambiato? Ti sei tagliato i capelli per caso? C’è qualcosa di diverso, ma cosa?
Da Capo Spartivento al golfo di Teulada, meravigliose spiagge bianche che si innestano in rocciosi promontori che guardano il Mediterraneo quasi a sfidarlo. Le torri di avvistamento che costellano il litorale si avvicendano con le morbide dune di Porto Pino ed il suo nascosto e magico canale navigabile dalle acque trasparenti.
Ci fermiamo una notte a Sant’Antioco, ospiti a cena a casa di amici che non solo ci accompagnano a fare cambusa e ci regalano una graditissima pastasciutta sotto un porticato che profuma di vacanza ma mi permettono anche di crogiolarmi sotto il caldissimo getto d’acqua della loro doccia, capendo immediatamente quali siano i segreti desideri umili di chi vive in barca.
A bordo di Marianne non c’è il classico doccino che di solito si trova a poppa, e anche se ci fosse il serbatoio di acqua dolce è così misurato che non ci potremmo permettere molti risciacqui dall’acqua salata.
Quindi ci siamo organizzati con le solar showers, sacchi di plastica nera che si scaldano al sole e che si possono appendere allo strallo di prua tramite un semplice sistema di carrucole. Si inseriscono dei doccini e via, ecco organizzata la doccia a bordo di Marianne. Peccato che con il maestrale che soffia non sia così semplice riuscire a intercettare il getto d’acqua che ovviamente oscilla a ritmo.
Così, in una sera di fine agosto, ci ritroviamo in un angolo della Sardegna a godere dell’atmosfera di casa. Ci ospita la famiglia di Andrea e Lara, amici di Gianluca. Sedersi a tavola e trovarsi a chiacchierare della scuola che sceglierà la figlia maggiore o dei fumetti preferiti del figlio più piccolo mi ha ricordato quelle rilassate cene estive in Sicilia in cui adulti, bambini e ragazzi condividevano tavola ed argomenti, raccontandosi la vita mentre scorreva veloce la notte attorno a noi.
Sentirsi a casa quando sia viaggia è a volte l’emozione più calda.
A Sant’Antioco scopriamo, nella costa ovest dell’isola, nascosta dietro la tonnara, una punta fatta di pozze d’acqua in cui nuotano minuscoli gamberetti, scogli scivolosissimi e micromondi marini.
Vicino allo scoglio Pan di Zucchero scopriamo invece empiricamente le velenosissime piccole meduse che nuotano a branchi. La medusa ha lasciato un segno così netto e preciso sulla fronte di Gianluca che sembra quasi si nasconda lì, sottopelle. Le striature rosse ricalcano perfettamente il corpo ed i tentacoli, povero skipper, è obbligato per una settimana a tenere coperta la testa tutto il giorno per evitare ulteriori irritazioni (perlomeno cutanee, perché la sua di irritazione non è stato possibile evitarla…).
L’ultima tappa delle nostre settimane sarde è l’isola di San Pietro.
Dopo qualche notte in rada, esplorando grotte (Davide), riprendendo l’apnea (Gianluca) e gli esercizi a prua (io), ci fermiamo in porto a Carloforte per l’ultima sera a tre.
Aperitivo, cena, dopocena. Il pacchetto completo dei velisti che saltano a terra dopo qualche settimana di astinenza dalla civiltà, assaporando il ghiaccio dei drink, i piatti portati a tavola da qualcun’altro, la cucina carlofortina che unisce gioiosamente e sapientemente sapori nordafricani, liguri e sardi, la passeggiata con la testa alleggerita dal vino tra i carruggi del centro storico. Che bella serata.
Mi sono chiesta cosa renda queste sortite sulla terraferma così piacevoli. Fame di conoscenza (che dialetto parlano qui? quali piatti tipici ci sono? quale mix di culture ha portato a ciò che vedo oggi?) che si intensifica quando l’approdo in un luogo sconosciuto avviene dopo ore e ore di navigazione. Senti che ti sei meritato quella scoperta e che devi approfittarne il più possibile perché dietro ogni luogo si nasconde una storia che puoi ascoltare se solo fai attenzione. Curiosità pura.
Sicuramente ha il suo peso la possibilità di dimenticarsi, almeno per qualche ora, di tutte le responsabilità che la barca porta con sé. Ho chiuso le prese a mare? Girato la manopola del gas? Qual è il livello delle batterie? Il vento da che parte sta tirando? Gli oblò sono serrati come si deve?
Questa nostra casa galleggiante che ci da riparo e ci fa volare sulle onde sa richiedere molte attenzioni e non ci fa mai dimenticare che i sensi devono stare all’erta.
Per una sera l’evasione e la leggerezza regnano, drogati da queste sensazioni tutto sembra perfetto (e spesso lo è davvero).
A Carloforte ci fa da Virgilio il proprietario della pescheria-trattoria in cui ceniamo. Appassionato di storia romana e locale ci racconta delle ondate migratorie che hanno interessato Carloforte, dai pescatori di corallo tabarchini a quelli napoletani.
Un omone grande e grosso che con tutto l’amore per quest’isola e per le sue origini, tra un tonno ed un cous cous, si fa portatore di un pezzettino di storia.
Carloforte mi ha conquistata, la mattina successiva scappo dal porto lasciando Davide e Gianluca alle prese con qualche lavoro e divento una giapponese dal clic selvaggio.
Mi inerpico sulle stradine, spio le case dalle facciate colorate, in ogni angolo un’esplosione di fiori e verde.
La piazza principale che da ombra con i suoi enormi alberi al classico comitato degli over-80, il cinema nascosto in un vicolo, le rosticcerie che mi chiamano ad entrare con i profumi che si sprigionano in strada.
Ma il mio equipaggio mi aspetta, dobbiamo rientrare a Sant’Antioco dove lasceremo Davide.
Saluti veloci ché, come sempre accade, sta per perdere il bus. Dal finestrino di quell’autobus ci vedrà ormeggiare in una grande baia, negli unici 15 minuti di esplosione di tempesta, tra pioggia e vento a trenta nodi. Il tempo di dare ancora e torna il sole. Marianne ci fa l’occhiolino: Bentornati a bordo!
2 commenti
maria stiffoni
sono un’amica di Diana, mamma di Gianluca, leggere il vostro viaggio mi fa capire una volta di più, come il mare affascini tanti come voi che lasciano la terra per esplorarlo, condividendo bellezza , paura, mistero, imprevisti , incontri . Bravi e coraggiosi. Continuate che leggervi è un piacere.
gianluca
Grazie davvero Maria, è davvero un privilegio poter raccontare tutta questa nostra bizzarra vita.