Viaggio

Quinta tappa: il tappone dolomitico – da Cefalonia a Pantelleria

Cefalonia è ormai alle nostre spalle, ci sentiamo forti, riposati, abbiamo salutato i nostri nuovi amici ed il desiderio di fare delle miglia spinge.

È incredibile come, nonostante sappiamo che nella migliore delle ipotesi sarà faticoso e nella peggiore sarà incredibilmente sfibrante, dopo un po’ di giorni nello stesso posto si faccia spazio dentro di noi la voglia di tornare a veleggiare a lungo.

È un’emozione che si può ricondurre a quella dei nostri avi navigatori ed esploratori? È la voglia di mettersi di nuovo alla prova? Il semplice bisogno di andare? La curiosità di quello che ci aspetta al di là dell’orizzonte?

Qualunque sia il demone che ci spinge, il giorno della partenza è sempre puramente emozionante: si dorme poco e male, ci si sveglia con quelle farfalle nello stomaco che senti prima di salire su un aereo, ed è tempo di tirare su i parabordi, giù la copertura anti-UV del fiocco, sistemare le cime dentro il gavone, mettere in sicura sottocoperta quello che potrebbe cadere e controllare un’ultima volta il meteo.

Siamo pronti. La nostra meta è lo stretto tra la Calabria e la Sicilia, vogliamo fare una piccola tappa culturale con i bronzi di Riace ed una gastronomica con il panino al pesce spada di Scilla. Da lì andremo verso Ustica.

Ci mettiamo in marcia, sappiamo che la navigazione sarà in gran parte di bolina, quindi ci prepariamo a vedere per molte ore (più di due giorni) un orizzonte obliquo.

Il vento ci sostiene e fino al pomeriggio procediamo spediti di bolina stretta. Ma ad un certo punto ci rendiamo conto che la bolina si farà sempre più stretta e rischiamo di andare quasi controvento per rimanere ancorati ad un obiettivo geografico che ci siamo prefissati senza però fare i conti con la natura.

Ma il grande potere della vela è proprio questo, che ogni tanto si possono abbandonare gli obiettivi e ci si può far guidare dal vento.

Decidiamo quindi di assecondarlo e di cambiare la nostra rotta, non più lo stretto ma il sud della Sicilia, e da lì proseguiremo verso Malta.

Ma sai cosa c’è? L’approdo migliore nel sud della Sicilia non è un granché quindi perché non fare direttamente rotta su Malta? Le miglia diventano magicamente 380, alla nostra velocità media tre giorni di navigazione. Per me il tempo trascorso in barca in mare aperto più lungo finora.

Notavamo però come la curva di apprendimento o di adattamento sia incredibilmente rapida in barca: fino a qualche settimana fa tre giorni in mare aperto mi avrebbero sconcertata o comunque perlomeno messo un po’ di timore. Ora, ad essere sincera, non vedo l’ora.

E anche i turni al timone iniziano a sembrare quasi meno faticosi, ma la bolina continua a tenerci compagnia fedele.

Il secondo giorno di navigazione non sono neanche troppo stanca quando alle tre di notte esco sopra coperta armata di biscotti e tè caldo.

Il cielo ed il mare sono completamente neri, la luna non esiste in questo cielo che sembra petrolio. La sensazione di avere solo mare attorno per chilometri e chilometri e neanche una barca in vista può essere inizialmente quasi terrificante ma poi subentra quello che ho capito essere molto simile al sublime: sei solo nel mezzo dell’immensità ed in qualche modo diventi immenso anche tu.

Umilmente ti affacci in un quadro di cui fai pienamente parte, come raramente ti è successo nella vita “terrestre”. Sì, c’è buio, ovviamente la fantasia galoppa sfrenata (chissà cosa ci sarà sotto… e se arriva un’onda gigante? E se…?). Ma poi arriva lenta ed inesorabile la sensazione che ce la puoi fare, che sai come funzionano tutte quelle cose attorno a te e che comunque tra tre ore sorgerà (velocissimo!) il sole.

La paura fa spazio all’orgoglio ed alla pienezza e totalità del momento. Quelle due, tre, a volte quattro ore di veglia notturna diventano uno spazio atemporale, si tiene l’attenzione sulle vele, il vento, le onde ma una parte di mente vola e va.

Da un pensiero circostanziato è un attimo e si arriva a ricordi di infanzia, si scrivono lettere a persone lontane, ci si coccola con memorie che si pensavano perdute per sempre, per poi saltare a desideri inconfessabili e come durante il periodo universitario di notte sognavo paragrafi perfetti della tesi che la mattina evaporavano assieme al primo sbadiglio del risveglio, così ugualmente mi riprometto alla fine di ogni turno di scrivere, registrare, segnare, lasciare una traccia di tutta quella lucidità e cuore e invece crollo in cabina in un sonno senza sogni.

Per due notti non si vedono né coste né luci della terraferma in compenso facciamo slalom tra i cargo e finalmente, verso le sette di sera, poco prima del tramonto, vediamo Malta ed il porto de La Valletta, che Gianluca conosce bene grazie ad un paio di Middle Sea Race degli anni passati.

Il tramonto in mare, quando capita la fortuna di avere una giornata tersa, senza nuvole né afa, è uno spettacolo che colpisce indistintamente tutti, anche i meno romantici.

La palla infuocata che si inabissa e sembra quasi di sentire lo sfrigolio dell’acqua a contatto col calore, il cielo che se ti giri ad est è già blu scuro e se rimani con lo sguardo ad ovest sta facendo la ruota come un pavone per convincerti che anche stasera il più bello di tutti è lui.

E ti viene proprio da ringraziarlo questo sole che all’alba ti ha tirato fuori dai tuoi pensieri e per tutto il giorno ti ha fatto compagnia e scaldato, anche quando il vento ti sferzava.

In questi momenti capisco perfettamente gli animisti, che ad ogni espressione del creato riconoscono un’anima ed uno spirito. Quando la tua quotidianità dipende letteralmente da ciò che ti circonda è facile cedere ad una antropomorfizzazione e quindi grazie sole, anche oggi lo spettacolo è stato maestoso.

Da quando si avvista la costa a quando effettivamente si attracca il tempo modifica i suoi battiti e quelle ultime ore diventano infinite, sai che il tuo compito è arrivato, per oggi, al termine, molli un po’ le briglie dell’adrenalina e come quando si finisce un test importante tutto ritorna prepotente e fortissimo: la fame, la sete, il sonno, la voglia di farsi una doccia e di cambiarsi, tutto il tuo corpo urla “arriviamo!”.

E invece, parte il film al rallentatore. Alle sette vediamo chiaramente Malta, solo alle dieci riusciamo ad entrare in porto.

L’ingresso di sera è maestoso: La Valletta è una città fortificata quindi si entra letteralmente all’interno delle mura che sovrastano da destra e sinistra. Tra l’altro siamo accolti dai fuochi d’artificio che continueranno ad esplodere di giorno e notte nei successivi tre giorni.

Tanto maestoso l’ingresso in città quanto tremendo l’ingresso al marina che abbiamo scelto: ci fanno pagare più di quanto ci avessero precedentemente preventivato, esigono pagamento in contanti la sera stessa, appurato che non li abbiamo ci scortano al bancomat più vicino per prelevare. Il tutto ovviamente prende più di un’ora quindi sono le undici, siamo lontani dal centro, ormai i bagni sono chiusi e non si può fare la doccia. Voglio piangere.

Per fortuna non troppo distante c’è un locale sul lungo canale dove, nonostante la cucina stia chiudendo, ci preparano un ultimo hamburger, forse notando gli occhi da manga che si stanno riempiendo di lacrime.

Il giorno successivo, come sempre quando ci troviamo in porto, ne approfittiamo per prenderci delle insolazioni mentre facciamo tutto quello che non è possibile fare in rada: puliamo la barca, scarpiniamo in salita fino alla laundry per il bucato, cerchiamo un rivenditore di batterie nautiche perché abbiamo deciso che è tempo di comprarne una terza per i servizi (al momento ne abbiamo solamente due come quelle delle automobili, quindi danno il massimo per accendere il motore ma a motore spento non riescono a sostenere i servizi della barca per più di due ore consecutive), diventiamo cintura nera di google maps per identificare negozi di attrezzature sub perché si è spezzata la pala di una pinna da apnea di Gianluca che ora sembra il povero pesciolino Nemo con la sua pinnetta atrofica.

Il tutto con il cronometro acceso: dobbiamo uscire dal marina massimo alle 14 e quindi di corsa.

Sono sempre stata una fan delle prime impressioni, che valgono sia per le persone che, mi rendo conto adesso, per i luoghi.

Purtroppo anche questa volta Malta non mi convince: sarà che c’è un caldo desertico, sarà che il centro storico de La Valletta è letteralmente invaso da studenti di inglese, sarà che fuori dalle mura ci sono centinaia di gru che tirano su ecomostri tutti uguali, sarà che la stanchezza ci fa litigare e che continuo a non trovare da mangiare, sarà quel che sarà ma la voglia di ripartire torna a farsi sentire prepotente.

Forse dopo un mesetto tra navigazione e Grecia ci eravamo anche disabituati al caos dei grandi centri abitati, alle macchine, alle strade con le buche.

Perlomeno abbiamo avuto la fortuna, durante la gita a La Valletta, di capitare esattamente nel mezzo della parata di celebrazione di San Domenico.

Un tifo calcistico camuffato di religiosità: gruppi di omaccioni sbronzi alle dieci di mattina con magliette con i colori del santo, cori da stadio all’incrocio di strade con il quartiere rivale, mortaretti che esplodono ad ogni angolo ed ovviamente la banda. L’influenza inglese sarà anche forte ma qui siamo decisamente molto più vicini alla Sicilia o al Nord Africa che non alla gelida Albione.

Archiviata l’isola di sabbia e gru facciamo rotta verso la perla nera, Pantelleria.

Una traversata assolutamente serena ed eccoci finalmente dare ancora nella costa sud dell’isola.

Pantelleria: per anni avevamo sognato di venirci, ma era sempre troppo scomoda, troppo cara, troppo lontana, troppo difficile. Che stupidi, ora che l’abbiamo vista posso dire che meritava tutti i disagi.

Anche a prima vista, dal mare, si nota quello che poi sentirò per tutti i giorni successivi: è un’isola potente, maestosa, violenta.

Le scogliere nerissime aguzze che all’improvviso si danno il cambio con quelle stratificate rosse, arancioni, rosa, così morbide da sembrare gli strati di una torta, colate laviche pietrificate per sempre in scivoli sul mare.  Tutte vestigia della natura vulcanica dell’isola. I fondali subito profondi e rocciosi che rendono gli ancoraggi complessi. Ogni presenza naturale o artefatto umano si porta dietro una lotta quotidiana con il vento che qui arriva da ogni lato, e batte ogni costa e anfratto. Le abitazioni sono basse, quasi nascoste tra i terrazzamenti, le piante di vite, i capperi, gli ulivi sono rannicchiati, arrivano al massimo all’altezza delle mie ginocchia, cercando riparo dietro i muretti a secco che ornano la campagna.

Nella costa sud non esistono, o quasi, spiagge facilmente raggiungibili da terra, bisogna sempre inerpicarsi, cercare, sbucciarsi le ginocchia, mettersi di impegno. Non è un’isola facile o ruffiana, che cerca di conquistarti. È un’isola che devi conquistare tu e che affascina profondamente lasciando ricordi che ancora oggi, a distanza di un mese, sono radicati e intrecciati.

Dopo tante ore di navigazione abbiamo voglia di sfruttare le nostre gambe, un po’ anchilosate. Ancoriamo quindi in una baia che ci sembra abbastanza protetta vicino Scauri, il secondo borgo di Pantelleria, scendiamo con il tender, lo lasciamo in una piccola insenatura ammorbidita dalla poseidonia ed iniziamo ad arrampicarci. Il paesino infatti non si trova sulla costa ma è arroccato, in macchina si arriverebbe comodamente con qualche tornante, noi attraversiamo i giardini dei dammusi, tra fichi d’India e capperi, e sbuchiamo quasi nel centro del borgo, guidati da un profumo di pane caldo che esce dalla bottega (e che mi fiondo a comprare, quanto è buono il pane siciliano…) .

Due passi tra le casette bianche e ci affacciamo come di rito al belvedere per dare un’occhiata alla nostra bella Marianne, che ci aspetta ondeggiando languida un po’ più giù.

Arancino, birra, tramonto e la vita ci sorride.

Il giorno dopo ci dirigiamo al porto di Pantelleria, vorremmo entrare anche solo per fare acqua ma un vento da sud a 30 nodi ed un ormeggio proposto un po’ infelice ci fanno desistere. Ci piazziamo quindi quasi all’ingresso del paese. Da notare che Pantelleria è così selvaggia e così poco cede ai turisti che perfino nel bel mezzo del bacino del porto ci sono numerosi scogli minacciosi da evitare. Questo non ci impedisce chiaramente di scendere a mangiare, pizza con la cipolla, focaccia con le patate, granita con la brioscia, panelle, baci panteschi. Lasciatemi qui.

Grazie ai consigli di un’amica decidiamo l’ultimo giorno di fare un po’ di trekking e scoprire il lago specchio di Venere, che si trova ad una ventina di minuti dalla baia di Campobello dove abbiamo dato ancora.

Venti minuti chiaramente in salita, a mezzogiorno, tra i rovi. Arrivati al lago ci sembra di essere di fronte ad un miraggio: l’acqua è turchese, il lago è incastonato dalle collinette e circondato da una stretta spiaggia, nonostante sia alimentato da sorgenti termali ci sono anche ampie zone dove l’acqua è freschissima. Un sogno.

Un bagno, un’insalata pantesca nella vicina azienda agricola ed è tempo di rientro in barca, si riparte, direzione Cagliari (ed ovviamente le previsioni indicano una chiarissima bolina). Questa volta rimarrei volentieri qualche giorno in più, ci sarebbe ancora tanto da scoprire ma abbiamo degli impegni e la Sardegna ci chiama.

2 commenti

  • Annamaria Bellantoni

    Gianluca, seguo con interesse e divertimento le vostre meravigliose avventure. Ma dove l’hai trovata una poetessa così raffinata, piena di osservazioni così profonde e nel contempo umoristiche? Complimenti per il vostro coraggio!
    Ci vuole più coraggio ad abbandonare la vita di tutti i giorni che affrontare un mare in tempesta.
    Aldo, da lassù, è orgoglioso di te.
    Un abbraccio da una vecchia amica.

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